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Quando nello stadio di Berlino, ai campionati delle Forze alleate, scorgono dietro il cartello Czechoslovakia un solo atleta male in arnese, tutti si sbellicano dalle risate. E quando quell'atleta, che storditamente non si č accorto della convocazione, attraversa lo stadio come uno sprinter decerebrato urlando e agitando le braccia, i giornalisti estraggono avidi i taccuini. Ma poi, quando nei cinquemila, pur avendo giŕ un giro di vantaggio, non smette di accelerare e taglia il traguardo in solitudine, ottantamila persone in delirio scattano in piedi. Il nome di quel ceco alto, biondo e che sorride sempre non lo dimenticheranno piů: Emil Zatopek. La sua aria mite e gentile č una trappola: dacché, apprendista nello stabilimento Bata di Zlin, ha scoperto che correre gli piace, nessuno l'ha piů fermato. Il fatto č che vuole sempre capire fin dove puň arrivare. Dello stile se ne frega: ignaro dei canoni accademici, corre come uno sterratore, il volto deformato da un rictus. Č, semplicemente, un motore eccezionale sul quale ci si sia scordati di montare la carrozzeria. Ai Giochi olimpici di Londra e poi a Helsinki Emil varca le possibilitŕ umane, diventa invincibile. Nessuno puň fermarlo: neppure il regime cecoslovacco, che comincia a chiedersi se un grande sportivo popolare non sia una forma di individualismo borghese.